Fotografa scrittrice o scrittrice fotografa? 

    “L’una e l’altra - afferma Carla Cerati -. Sono comunque due attività ben precise che coesistono, ma non si fondono: è sempre un’osservazione della realtà eseguita in due modi diversi usando due mezzi diversi; la fotografia mi serve per documentare il presente,  la parola per recuperare il passato”. 

    Di origine bergamasca, Carla Cerati è cresciuta in una famiglia borghese con tutte le limitazioni che ne possono derivare: il concetto principale è che la donna sta in casa a fare la madre di famiglia, spingendo alla ribellione un carattere come il suo che, dietro ad una figura dall’apparente fragilità, cela una forza d’animo, una testardaggine, una volontà propria di chi, maturata una certa decisione, la porta avanti fino in fondo costi quel che costi. 

    E nei suoi scritti è raccontato il travaglio della sua metamorfosi personale: “Il problema base è che la donna vive chiusa in casa e non ha alcun contatto con l’esterno, arriva a una totale regressione culturale, a un disinteresse, un’apatia, si sente come a S. Vittore dove si sta dentro a quattro pareti e non si sa niente di quello che succede fuori. Ad un certo punto è questione di sopravvivenza, tu capisci che muori, che non senti le cose, non hai più niente da dire e allora te ne vai. Molli tutto, non pigli neanche la valigia”. 

    Nelle fotografie Carla documenta la sua analisi sociale della realtà, la sua osservazione dei comportamenti umani, partecipazione come presa di coscienza del momento storico in cui si trova coinvolta a vivere.

    “Ho cominciato a fotografare nel ’60, la spinta è stata nel cercare una realtà più interessante che non fosse il piccolo mondo che mi stava attorno: i bambini, gli amici. Con una Rollei che mi aveva venduto mio padre, ho avuto l’occasione di fare la fotografa di scena di una commedia di Enriquez al quale le mie foto sono piaciute e me le ha comperate. Per sei mesi ho frequentato anche un circolo fotografico, ma non l’ho trovato interessante”. 

 

Quali sono i limiti, secondo te, di questi circoli che continuano a proliferare?

 

    “I limiti sono nel fatto stesso che considerano la fotografia un hobby, con tutto quello che comporta fare una cosa per hobby: mancanza di spinte reali, davanti a delle difficoltà uno si ferma, c’è il lavoro vero che occupa la maggior parte del tempo per cui si possono dedicare solo i sabati e le domeniche, mentre il professionista se chiedono di fare un servizio, nel momento che accetta, deve realizzarlo, qualsiasi siano le difficoltà che può incontrare. E poi era un hobby costoso, per cui ho pensato che doveva pagarsi da sé. Approfittando del fatto che mia figlia andava a scuola di danza, ho fotografato il saggio finale per la direttrice e con le stesse immagini sono andata da Tumiati che allora era il direttore dell’Illustrazione Italiana, ne è rimasto colpito tanto da darmi da fare un’inchiesta sulla scuola. È stata la mia prima pubblicazione”.

    E poi da free-lance Carla Cerati ha cominciato a collaborare con Vie nuove, L’Espresso... parla di queste sue esperienze con tono un po’ annoiato, chissà quante volte è stata costretta a ripetere la sua storia! questo credo sia uno dei lati negativi della notorietà. Il suo sguardo si riaccende quando le chiedo dell’esperienza che ha fatto con Basaglia a Gorizia. 

    “Basaglia voleva fare un libro fotografico sulle istituzioni negate. Le cose però andavano troppo per le lunghe perché nelle caserme è difficile entrare, nelle carceri impossibile, allora abbiamo deciso di farlo solo sui manicomi ed è uscito “Morire di classe”. A questo punto ho cominciato a considerare la fotografia come operazione di denuncia. Era il ’68. Nel ’69, con le bombe di piazza Fontana, ci è arrivata addosso una realtà politica travolgente, di qui la mia indagine ha preso una direzione ben precisa: la strategia della tensione, i processi politici, le rivolte operaie. Tutti fatti che si potevano smentire con le parole, non con le immagini”. 

 

Il reportage, documentare le persone è il genere di fotografia che senti di più, cosa cerchi nella gente? 

 

    “Quello che non si vede a prima vista, un modo di essere che magari uno maschera dietro un atteggiamento, non so, l’angoscia, la noia, tutta una serie di collegamenti, di legami col mondo esterno che mi piace catturate. Mi diverto o soffro. Nel momento in cui ho fotografato un suicida ho avuto un grosso problema, mi dibattevo con me stessa per decidermi. Pensavo: allora faccio l’avvoltoio, il paparazzo, quale indiscrezione entrare nella vita privata della gente, ma uno dice: allora è inutile che faccia questo mestiere. Da un lato vorresti varcare il limite che ti separa dalla vita degli altri, poi però ti lasci prendere dall’aggressività. Sai, anche nei manicomi c’erano malati che non volevano farsi riprendere, era chiaro che facevo una violenza che serviva loro”. 

 

Ti senti realizzata nell’aver scelto questo lavoro? 

 

    “Vivere del mestiere che ti piace credo sia il massimo della realizzazione. Comunque mi sento realizzata anche quando scrivo malgrado che fino adesso non è che mi abbia dato da vivere”. 

 

Ma che tipo di personaggio è il fotografo? 

 

    “È un matto, un matto in libertà. Alle volte penso veramente di essere pazza: l’altra notte alle 5 mi ha preso il raptus di mettermi a stampare dei 50x60, che non dovevo consegnare a nessuno, da dei negativi che avevo lì da tempo e che mi piacevano da morire. Tu capisci, all’improvviso, metti delle enormi bacinelle con grande scomodità in una piccola camera oscura, chissà perché? non potevo farlo l’indomani?!”. 

    È una domanda affermazione che non attendeva risposta questa, Carla più che rivolgerla a me, è come se parlasse con se stessa in tono scanzonato. Gesto consueto, meccanico, che inconsciamente dà sicurezza, continua ad accendersi una sigaretta dopo l’altra, puntandomi addosso quel suo sguardo da cerbiatto, si passa una mano sul caschetto di capelli ramati, si lascia la frangia adolescenziale che le copre la fronte, sorride un sorriso dolce di una persona che ha raggiunto un suo equilibrio al di là delle problematiche della vita. 

 

Cosa provi quando riesci a fare una fotografia proprio come l’avevi pensata? 

 

    “Un’allegria folle”. 

 

"Carla Cerati: tra fantasia e realtà". Intervista di Etta Lisa Basaldella. 

Apparsa su 7 Giorni Veneto, Marzo 1977.